IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    1.  -  In  data  29  giugno 2006 Benjamin Redzic veniva tratto in
arresto  dalla  Polizia  di  Stato,  perche'  ritenuto  versare nella
flagranza  del  reato  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter del d.lgs.
n. 286/1998. Il pubblico ministero chiedeva la convalida dell'arresto
e  la  celebrazione  del giudizio direttissimo; fissata l'udienza per
tale  scopo  il  giudicante,  all'esito del processo, ritenuto che il
fatto fosse diverso da quello contestato (perche' integrante il reato
p. e p. dall'art. 13, comma 13 del d.lgs. n. 286/1998), ha restituito
gli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2 c.p.p.
    Viene  ora nuovamente tratto a giudizio il Redzic avanti a questo
giudice,  con  una  imputazione alternativa fra i reati sopra citati;
peraltro,  ritiene  questo  giudicante  che  il  fatto  debba  venire
qualificato  alla  stregua  della fattispecie da ultimo citata, anche
perche'  lo  stesso  Redzic  ha  ammesso  (senza avere un particolare
interesse a farlo) di essere volontariamente rientrato in Italia dopo
l'espatrio effettuato in ottemperanza al decreto di espulsione.
    Nell'odierna  udienza, aperto il dibattimento, venivano acquisite
sull'accordo   delle  parti  le  deposizioni  rese  dai  testi  nella
precedente   fase   dibattimentale;   poi  le  parti  formulavano  le
rispettive conclusioni.
    Peraltro, qualora lo scrivente dovesse pervenire a riconoscere la
penale responsabilita' dell'imputato, e' pregiudiziale la valutazione
concernente  la  conformita' alla Carta costituzionale delle norme di
cui  potra'  essere  fatta  applicazione  a tal fine, particolarmente
della  previsione  edittale  che  si  riferisce  al  reato per cui si
procede,  peraltro  nei  limiti in cui tale valutazione e' consentita
dall'art. 1  della  legge  costituzionale  9  febbraio  1948,  n. 1 e
dall'art. 23, comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    2.   -   Anzitutto,   pare   opportuna   una   breve  digressione
sull'evoluzione  della  normativa di cui si deve fare applicazione in
questa sede.
    Prevedeva  l'art.  151 TULPS che lo straniero espulso non potesse
rientrare   nel   territorio   dello   Stato   senza   una   speciale
autorizzazione  del Ministro dell'interno e che il trasgressore fosse
punito con l'arresto da due a sei mesi.
    L'art. 46,  comma  1, lett. a) della legge 6 marzo 1998, n. 40 ha
abrogato  l'art. 151  TULPS;  a  questa  e'  subentrata la previsione
incriminatrice  di  cui  all'art.  13,  comma 13 del d.lgs. 25 luglio
1998,  n. 286,  rimanendo  pero' immutata la sanzione prevista per il
trasgressore.
    L'art.  12,  comma  1  della  legge 30 luglio 2002, n. 189 ha poi
pero'  inasprito  la  sanzione,  prevedendo  che la medesima condotta
fosse punibile con l'arresto da sei mesi a un anno.
    Infine,  la  sanzione  edittale e' stata ulteriormente modificata
dall'art.  1  del  d.l.  14  settembre  2004,  n. 241, convertito con
modifiche  dalla  legge  12  novembre  2004,  n. 271, per il quale la
medesima  condotta  e'  punibile  con  la reclusione da uno a quattro
anni.
    Peraltro,  il  d.l. n. 241, nelle modifiche introdotte in sede di
conversione, ha inasprito anche la sanzione edittale stabilita per il
reato  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter del d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286,  portandola  - dall'originaria previsione dell'arresto da sei
mesi a un anno - a quella della reclusione da uno a quattro anni.
    Le  modifiche  alla  normativa  de qua dettate dal citato decreto
conseguono alla pronuncia, da parte della Corte costituzionale, della
sentenza n. 223 del 15 luglio 2004, con la quale era stata dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14, comma 5-quinquies del
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 per contrasto con gli arti 3 e 13 della
Costituzione,  «...nella  parte  in  cui  stabilisce che per il reato
previsto  dal  comma  5-ter  del  medesimo  art. 14  e'  obbligatorio
l'arresto    dell'autore    del    fatto...»,    per   la   manifesta
irragionevolezza della previsione dell'arresto obbligatorio, previsto
dalla  norma  nonostante  che  sulla  base  del  vigente  ordinamento
processuale  esso non fosse suscettibile di sfociare in alcuna misura
cautelare.
    D'altro   canto,   dalle   dichiarazioni  degli  esponenti  della
maggioranza  parlamentare  (nella  misura in cui dalle stesse si puo'
desumere  l'«intenzione»  del  Legislatore) e dagli atti parlamentari
relativi  all'iter  di  approvazione  della  legge  di conversione si
ricavano  indicazioni  univoche, le quali confermano che le modifiche
introdotte  con  il  d.l.  n. 241  del 2004 sono state motivate dalla
necessita'  di  ovviare  alla  pronuncia  della  sentenza della Corte
costituzionale n. 223 del 2004.
    Invero,   in   tali   atti  si  rinviene  piu'  volte  l'espressa
indicazione della necessita' di superare le censure mosse dalla Corte
costituzionale  («...Sul  cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la
mannaia  della  Corte  costituzionale...  Ritengo  che con il d.l. in
esame il Governo ed il Parlamento siano intervenuti correttamente per
rispondere  ai  rilievi della Corte...» (A.C. 5369, discussione del 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  al  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
    Va  dunque  notato che l'innalzamento del limite edittale massimo
porta la fattispecie in esame nell'ambito di operativita' del sistema
generale   di   applicabilita'  delle  misure  coercitive,  ai  sensi
dell'art. 280,  comma 2 c.p.p., sicche' viene meno il presupposto dal
quale  la Corte aveva argomentato l'irragionevolezza della previsione
dell' arresto obbligatorio per siffatto reato.
    Peraltro, va notato che, pur non venendo direttamente interessata
dalle  pronunce  della  Corte  costituzionale  la  fattispecie di cui
all'art. 13,  comma  13,  la modifica della sanzione edittale ad essa
relativa   si   giustifica   per   il   coordinamento   del   sistema
sanzionatorio,  posto  che anche in precedenza le previsioni edittali
dell'art. 14,  comma  5-ter  e dell'art. 13, comma 13 erano analoghe.
Dunque  anche  per quest'ultima fattispecie e' ora previsto l'arresto
obbligatorio  in flagranza ed e' possibile l'applicazione di tutte le
misure  coercitive contemplate nel Capo II del Libro IV del Codice di
procedura penale.
    3  .  -  Dubita  lo  scrivente  giudice  che la misura della pena
edittale  prevista  per  il  reato  in  esame sia conforme al dettato
costituzionale.
    In  primo  luogo,  essa  pare  in  contrasto  con  l'art. 3 della
Costituzione,   perche'   non  appare  rispettosa  del  principio  di
uguaglianza,   sotto   i   profili   della   ragionevolezza  e  della
proporzionalita'.
    Si  deve  pero'  premettere  che  la  Corte  costituzionale,  pur
riservando  alla  discrezionalita'  del  legislatore lo «...stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'  di  situazioni...»,  ha  affermato ripetutamente che «...
l'esercizio  di  tale  discrezionalita'  puo' essere censurato quando
esso  non  rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo
ad   una   disparita'  di  trattamento  palese  e  ingiustificata...»
(sentenza  n. 25  del  1994;  il  principio e' richiamato anche nella
sentenza  n. 333  del  1992,  nell'ordinanza  n. 220 del 1996 e nella
sentenza n. 84 del 1997).
    Allora,  riguardo ai profili dianzi richiamati, e' stato chiarito
(sentenza  n. 409  del  1989) che il principio di uguaglianza sancito
dall'art. 3   della   Costituzione   «...   esige  che  la  pena  sia
proporzionata  al  disvalore del fatto illecito commesso, in modo che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni individuali...». Tale
funzione  non  verrebbe  adempiuta  qualora non venisse rispettato il
limite della ragionevolezza.
    Per  meglio  delineare quest'ultimo si puo' fare riferimento alla
giurisprudenza   della  Corte  costituzionale  che,  nell'intento  di
specificare  i connotati del principio costituzionale di uguaglianza,
ha fatto riferimento a un piu' ampio sistema di valori, che abbraccia
molteplici  principi  costituzionali,  che va letto nel suo insieme e
impone  soluzioni interpretative fra loro coerenti: il riferimento va
alla sentenza n. 91 del 1973 e, soprattutto, alla sentenza n. 215 del
1987,  che  afferma  «...  Sul  tema  della  condizione giuridica del
portatore   di  handicaps  confluiscono  un  sistema  di  valori  che
attingono    ai    fondamentali   motivi   ispiratori   del   disegno
costituzionale...   conseguentemente,   il   canone   ermeneutico  da
impiegare    in    siffatta    materia    e'    essenzialmente   dato
dall'interrelazione  e  dall'integrazione  tra i precetti in cui quei
valori  trovano  espressione e tutela...»; ancor piu' esplicitamente,
la  sentenza  n. 204  del  1982  insegna  che  il  valore  essenziale
dell'ordinamento giuridico di un paese civile va ricercato «... nella
coerenza tra le parti di cui si compone... canone di coerenza che nel
campo  delle  norme  di  diritto  e'  l'espressione  del principio di
uguaglianza  di  trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3
...».
    Cosi',  la  Corte  costituzionale  ha ripetutamente dimostrato di
ritenere  sindacabile l'esercizio della discrezionalita' da parte del
legislatore,  sul  punto  relativo  alla  corrispondenza delle scelte
legislative  al  canone  di  ragionevolezza:  al riguardo, si possono
ricordare la sentenza n. 55 del 1974 (con la quale si e' ritenuto che
la  norma impugnata dettasse si' una disciplina (differenziata, pero'
per  situazioni  che il legislatore aveva ritenuto diverse e che tale
apprezzamento  non  fosse  privo di razionalita) e la sentenza n. 126
del  1979,  nella  quale  si  insegna  che  «...effettuata una scelta
politica  nell'esercizio della sua discrezionalita', logica vuole che
il  legislatore  stesso attui poi con coerenza il criterio prescelto,
mediante  una  disciplina  normativa idonea al conseguimento del fine
voluto.  Diversamente,  ove  l'incoerenza  fosse  tale da determinare
irrazionali  discriminazioni,  la legge risulterebbe viziata non solo
nel   merito,   ma   anche   sotto   il  profilo  della  legittimita'
costituzionale...».
    Anche  sullo specifico tema del giudizio sulla razionalita' delle
scelte  del  legislatore  in tema di proporzione fra reato e pena, la
Corte ha piu' volte affermato la possibilita' di sindacare disparita'
di    trattamento   talmente   rilevanti   da   apparire   prive   di
giustificazione, e cio' e' avvenuto anche quando poi, in concreto, la
Corte ha ritenuto di non rilevare nelle norme denunciate squilibri di
ampiezza  tale  da  comportare il suo intervento demolitivo (cfr., ad
esempio, la sentenza n. 271 del 1974).
    Peraltro,  la gia' citata sentenza n. 409 del 1989 costituisce un
importante  punto di arrivo nel percorso interpretativo seguito dalla
Corte,   venendo   in   essa   esplicitato   che   il   principio  di
proporzionalita'    induce    a   negare   legittimita'   alle   «...
incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente idonee a raggiungere
finalita'  statuali  di  prevenzione,  producono, attraverso la pena,
danni  all'individuo  (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa'
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
quest'ultima  con  la  tutela  dei  beni  e  dei  valori offesi dalle
predette incriminazioni...».
    4.  - Nel caso di specie ritiene questo giudice che, in relazione
ai  principi  sopra  ricordati,  la sanzione edittale prevista per il
reato  in  esame sia eccessiva, oltre che del tutto sproporzionata al
disvalore della condotta che intende reprimere.
    Si  nota,  invero, che l'inasprimento operato dall'ultima novella
e'  macroscopico,  sia  perche'  la  medesima condotta ora integra un
delitto  anziche'  una  contravvenzione, sia perche' l'odierno minimo
edittale  coincide  col previgente massimo edittale; se poi si guarda
al  periodo  immediatamente  precedente,  si  nota  che  la  medesima
condotta  fino al 2002 veniva punita con l'arresto da due a sei mesi,
dunque  con  una  sanzione  che,  al  massimo,  arrivava  alla  meta'
dell'odierno minimo edittale.
    Al contempo, pero', il fenomeno dell'immigrazione clandestina che
la  normativa  in  esame  si  propone  di  contrastare  non ha subito
apprezzabili evoluzioni, ne' si sono registrati mutamenti che possano
avere  indotto  il  legislatore  a  riconsiderare  il valore dei beni
giuridici tutelati e a introdurre norme piu' severe, e questo nemmeno
se  si  prende  in  esame il maggior arco di tempo che risale fino al
1998.
    D'altro  canto,  una qualche giustificazione sotto questo profilo
non  si  rinviene  nemmeno  dall'esame  dei  lavori  parlamentari: in
particolare, non si rinviene nella relazione all'emendamento del d.l.
n. 241/2004,   posto  che  i  relatori  fanno  riferimento  esplicito
soltanto  alla  necessita'  di  adeguarsi  alla  sentenza della Corte
costituzionale  n. 223  del  2004,  intendendo  tale adeguamento come
inasprimento  della  pena, cosi' da consentire l'arresto obbligatorio
per coloro che non ottemperino all'ordine del questore.
    Infine,  va  notato  che  l'irragionevolezza  della previsione in
esame  e'  confermata anche dal raffronto con la fattispecie prevista
dall'art.  13, comma 13-bis prima parte, la quale commina la medesima
pena  a colui che rientri nel territorio nazionale dopo un'espulsione
disposta  dal  giudice: fatto quest'ultimo che, pero', e' da ritenere
ben  piu'  grave,  in  quanto presuppone la commissione di un reato o
quantomeno  la  pendenza  di  un procedimento penale, mentre cio' non
ricorre per la fattispecie di cui all'art. 13, comma 13.
    5.  -  Ritiene ancora lo scrivente giudice che la norma penale in
esame contrasti con l'art. 27, comma 3 della Costituzione.
    Invero,   deve   venire   anzitutto   ricordato   come  la  Corte
costituzionale,  dopo  avere  inizialmente  ritenuto  che il precetto
costituzionale    appena   invocato   si   riferisse   essenzialmente
all'esecuzione  penale  e  dunque  non  avesse  riguardo  alla misura
edittale   della  pena  fissata  dal  legislatore,  ha  ripetutamente
affermato  che  esso  si  riferisce  a tutti i momenti in cui vige la
sanzione  penale, particolarmente in quello in cui la minaccia di una
pena   per   un   determinato   comportamento  esplica  finalita'  di
prevenzione  generale:  «...  se  la  finalita'  rieducativa  venisse
limitata  alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogni
qualvolta  specie e durata della sanzione non fossero state calibrate
(ne'  in  sede  normativa  ne' in quella applicativa) alle necessita'
rieducative  del soggetto...» (v. sentenza n. 313 del 1990 e sentenza
n. 341 del 1994).
    Nel  caso di specie, come si e' gia' notato sopra, l'inasprimento
della   pena   e'   stato   dettato   unicamente   dall'esigenza   di
legittimazione   costituzionale   -   sotto  il  particolare  profilo
esplicitato   dalla  Corte  nella  sentenza  n. 223  del  2004  -  un
determinato  iter  procedurale,  che  passa  attraverso la previsione
dell'arresto  obbligatorio  (art. 13, comma 13-ter) e la possibilita'
di applicare misure cautelari coercitive, verosimilmente perche' tali
scansioni  procedimentali si intendono quali strumenti di prevenzione
speciale.
    Tuttavia,  cio'  ha comportato un vero e proprio rovesciamento di
prospettiva,  che  conferisce  al  diritto  sostanziale  una funzione
servente rispetto alle norme processuali.
    Invero,   nel  nostro  ordinamento  la  fissazione  della  misura
edittale   della  pena  risponde  certamente  a  scelte  di  politica
criminale  che  il legislatore pone in essere sulla base del contesto
sociale  in  cui  opera  e avendo di mira la difesa di un determinato
bene  giuridico;  peraltro,  il  dettato costituzionale impone che la
pena  - anche nell'astratta previsione edittale - venga proporzionata
in guisa tale da riuscire utile alla rieducazione del condannato.
    Per  tale  ragione,  una  previsione  edittale che venga modulata
unicamente  in  funzione  dell'esperibilita'  di  un determinato iter
processuale,   in   mancanza  di  altre  ragioni  che  obiettivamente
giustifichino   il   suo   notevole   inasprimento,  viene  di  fatto
disancorata dagli ordinari parametri di riferimento e, percio', perde
anche la sua precipua funzione rieducativa.
    Quindi,  l'entita'  della pena non e' una leva che il legislatore
possa  muovere  ad  arbitrio,  per  conseguire  finalita' di politica
criminale  determinate,  senza  tenere  in  conto  il disvalore della
condotta  e  il  bisogno  di  rieducazione  del reo che essa mette in
evidenza.
    Fermo  restando  che  non si intende anticipare in questa sede la
valutazione  in  ordine alla responsabilita' dell'imputato (ovvero in
ordine  alla congruita' della specifica pena concordata dalle parti),
va   notato  che  il  presente  giudizio  non  puo'  venire  definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   questione   sopra
evidenziata,    apparendo    che   necessariamente   dovrebbe   farsi
applicazione  della  norma  sopra citata e sospetta di illegittimita'
costituzionale.
    Per  le  ragioni  sopra  indicate,  questo  giudice  ritiene  non
manifestamente   infondata   l'esposta   questione   di  legittimita'
costituzionale.
    Il processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente
trasmessi   alla  Corte  costituzionale,  per  la  risoluzione  della
questione.
    Va ordinata altresi', a cura della cancelleria, la notifica della
presente  ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua
comunicazione ai Presidenti delle Camere.